LA POESIA

Freud ha detto molto, ma se proprio volessimo essere estremi , e perchè non esserlo, direi che Freud ha detto tutto.   E’ l’essenza stessa della psicoanalisi , la sua struttura il suo rappresentare “laldiladelladiquà” rigorosamente tutto attaccato, come oramai scrivo da tempo, che consente di affermare che la psicoanalisi ha detto tutto, offrendoci un infallibile strumento di comprensione di noi stessi e del mondo .
Freud ci ha donato quello strumento “ideativo” che fa vedere il non visibile il quale , parte integrante dell’universo tutto, pur  non visibile , produce comunque  il suo effetto. Spesso in forma eclatante, disarmante. Ma l’ideativo della psicoanalisi affonda le proprie  radici nel mondo pulsionale che  elèva , elabora e ricomprende dialetticamente all’interno del  pensiero che si dischiude. La psiconalaisi ci ha disvelato la forza di ciò che è , ed anche il suo lato oscuro.
Ci ha disvelato il simbolico , il suo incanto che apre all’essere  ma anche  il contraltare del simbolico che puo’ trasformarsi nel buio dell’anima, nel disincanto dell’alienazione che,  come dice Adorno,  fa amare la prigione , le inferriate , in assenza di vero amore.
E’ proprio l’assenza del simbolico nello sviluppo dell’individuo. il suo annullamento e la sua mortificazione, la sua manipolazione affettiva, pulsionale e sociale, attraverso una overdose di immagini che ingombrano l’anima, o attraverso l’overdose di chiacchere , il loro  andare oltre il limite ,  lo straripare di  opinioni che si sopravvalutano e si fanno chiamare verità,  è qui ,  in questo debordare  che si   sviluppa quel lato oscuro della forza che identifichiamo con la cosificazione dell’essere, con il suo venire ridotto a “cosa”.
Tutto ciò ci conduce su un sentiero privo di umiltà, di fantasia , di poesia, di ricerca di verità e del conforto dell’oltre .
Del ….c’è altro …..
Ecco la poesia è la possibilità di affermare che c’è altro. Che cosa questo sia, poco importa. Le sue declinazioni saranno ciò che saranno. Importante è l’esserci altro. Che ci piaccia o meno.
Non c’entra la credenza , la fede, la speranza , ma solo il fatto che c’è altro da qualche parte , dietro l’angolo. E il mondo a Dio piacendo ha sempre un…dietro l’angolo.
Abbandonate la strada maestra , le grandi strade e prendi i sentieri , diceva Pitagora.
Ecco che dunque la riflessione, il desiderio di capire , di imparare , la fantasia, il gioco, il fantasticare , il sogno , la poesia trasformano i lati oscuri in luce.  Ciò non significa che il sogno , la poesia , il fantasticare , o il gioco evitano il dolore , ma che il dolore , la difficoltà, il pianto, assumono una posizione affatto differente : vengono sottratti al signore del male che tutto reifica e oscura e consegnati ad un mondo di super eroi .

Manuela Barbarossa

15 novembre 2024


Rimatori tra l’Immaginario e il postmoderno?”

di Roberto Valentini     

Roberto Valentini
Se nell’epoca dell’Intelligenza artificiale si è forse già al di là del Gestell heideggeriano, se il dominio della téchne si registra cioè col suo attuarsi in quello dell’eikasia, assorbiti dal trionfo e dalla proliferazione di immagini che ci assediano costantemente, quale ruolo si potrebbe attribuire alla poesia in una società anestetizzata proprio da un eccesso di stimoli (accecata come l’ingordigia di Polifemo da una superfetazione visiva e dalla sua soggiacente domanda)?
Restando tra lo Scilla e Cariddi della canzone d’organetto che continua a intonarne l’inno a morte da una parte, e di una nostalgia in cui rivivono solo manierismo e mitologia iniziatica dall’altra, la più genuina espressione del discorso poetico continua forse a risiedere, ancora ed enigmaticamente, in quell’umanità “fiorita dalla parola”, in quella “limpida meraviglia / di un delirante fermento”, che, con la sua vibrante pronuncia, Ungaretti esprimeva nella celebre lirica ad Ettore Serra.
Per sua vocazione la poesia non può, cioè, che incarnare un ruolo di produzione simbolica e di costituzione di senso, dissodare un terreno di testimonianza in cui si impronta l’orma d’un destino, tanto individuale che collettivo, in cui, contro una mistificazione diffusa, si abita lo spazio ontologico della verità, si getta il seme del riconoscimento e della memoria, solo orizzonte su cui indovinare l’ombra sfumata del proprio domani. Il fregio del poeta dovrebbe infatti spettare a colui che dischiude mondi e traccia le linee di una civiltà, che ne istituisce gli orizzonti storico-destinali, che contribuisce a disegnare i contorni dell’Umanità, e persino il volto di Dio (Omero, Ovidio, Lucrezio, Dante, Milton, Blake, Ariosto, Shakespeare, Leopardi, Byron, Goethe, Baudelaire, Lorca, Rilke, solo per nominarne alcuni). Se nella garrula, incontrastabile dispersione dei tempi odierni tale compito appare sempre più arduo, recitando le parole di Moravia ai funerali di Pasolini dovremmo a maggior ragione rammentarci che di poeti ne nascono solo quattro o cinque in un secolo; la scelta di un’alternativa meno velleitaria – quella del termine “rimatore”, da me adottato a intestazione del sito – pare allora offrire sia un valido argine, quasi una provocazione, alla moltitudine dei troppi “poetanti” (quando “tutto è poesia”, ça va sans dire, nulla più lo è), quanto una significativa, inaspettata risorsa semantica.
Il vocabolo sembra cioè garantire un doppio vantaggio: da una parte riannoda l’esercizio poetico all’intonazione dei compositori in volgare delle origini, alla scuola siculo-toscana con la sua spiritualità amorosa e visione etico-politica (il Guittone di “Ahi lasso, or è stagion de doler tanto”), dall’altra evidenzia nel rimando alla rima – parola oggi quasi impronunciabile ma recuperabile in chiave emblematica – quell’elemento, quella circolazione fonetico/semantica da cui la poesia non dovrebbe mai abdicare, il cui scoglio si dovrebbe ancora affrontare, pena l’abbandono, rimatori di naufragi, del suo approdo felice sul mare spumeggiante del linguaggio (ciò valga a prescindere dall’approccio stilistico e contenutistico; si pensi all’appello alla lingua di Zanzotto o al bersaglio della rima scandito e invocato dal Caproni della splendida “Litania”: Genova di tutta la vita / Mia litania infinita / Genova di stoccafisso / e di garofano, fisso / bersaglio dove inclina / la rondine: la rima).
Non è poi forse proprio la rima quel riflesso sullo specchio della parola che potrebbe con un continuo rimescolamento indovinarvi una sponda? Altrimenti detto si dovrà forse avere il coraggio di sostare ancora sulla sua soglia come sull’orlo del verso che più che mai ne evidenzia l’événement, la provenienza dal bianco, dal fragile abisso delle parole (“la profondità sta in superficie”), dal silenzio a cui esse offrono intimità e voce – l(‘)oro! – poiché, ricordando Mallarmé, nel bianco stanno la neve, la verginità, il cigno, il ventaglio, il marmo e la morte come il seme e la stella (la proteiforme mise en scène dell’Inconscio).
Scontando una costante formazione filosofica (esercitata dopo la laurea come autore di saggi e collaboratore della rivista “Magazzino di filosofia”), nei miei lavori ho perciò sempre provato a recuperare quest’eco fulgida, antica e temibile (che si trattasse di rivisitare il poemetto filosofico, le stanze caproniane o la musicalità del verso libero); sempre con l’idea di esercitare un’interrogazione che cerchi di rivitalizzare la forma screziandola con la tensione della lingua e del reale, mantenendola viva sino a incrinarla nello stesso lampo della sua visibilità (poiché l’incrinatura è forse il nostro stesso guardare). Con l’auspicio che di fronte alla “poesia degli idola” si possa ancora, nietzschianamente, divenire rimatori d’un tramonto.
Roberto Valentini
Sito personale: robertovalentini.org
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